Oltre le parole
Quest’anno è giunto alla sua decima edizione. E’ il World Emoji Day, la Giornata Mondiale delle Emoji, le famose ‘faccine’ divenute oramai linguaggio universale nelle chat di messaggistica istantanea e sui social network di tutto il mondo. A questa nuova modalità comunicativa, che ha contribuito a soppiantare del tutto la conversazione faccia a faccia soprattutto tra i giovani, è stata addirittura dedicata una Giornata internazionale la cui celebrazione ricorre il 17 luglio di ogni anno, a decorrere dal 2014. La istituì Jeremy Burge, un giovanissimo designer e animatore australiano, noto anche per aver fondato l’Emojipedia, una sorta di enciclopedia delle emoji che, opportunamente catalogate, offrono agli utenti una guida all’utilizzo efficace.
Introdotte nel 1999 dal giapponese Shigetaka Kurita, negli ultimi anni le emoji sono diventate così famose che la locuzione emoji è stata inclusa nell’Oxford Englih Dictionary, successivamente al termine selfie. In particolare, la ‘faccina’ che piange di gioia, risultata la più utilizzata a livello globale, è stata insignita nel 2015 del titolo di word of the year: per la prima volta un simbolo, sfruttando l’efficacia comunicativa del volto umano, ha elevato il proprio status nel mondo della comunicazione a discapito del linguaggio, della parola. Inoltre, nel 2017 fece il giro del mondo un film d’animazione dal titolo “Emoji: accendi le emozioni” diretto da Tony Leondis, che al Box Office Usa, nelle prime sei settimane di programmazione, incassò ben 82,5 milioni di dollari.
L’evoluzione del modo di comunicare
La comunicazione – è ben noto- si attiva mediante un’ampia gamma di codici, e quello linguistico inerisce alla comunicazione verbale. Ma la comunicazione viene veicolata anche da mimica facciale e corporea, postura e tratti paralinguistici (ritmo, tono di voce, uso delle pause, silenzi), caratteri non intenzionali che afferiscono alla cosiddetta comunicazione non verbale. Esistono poi altri media, cui consapevolmente facciamo ricorso a supporto della comunicazione interpersonale. Si tratta di forme simboliche che, con l’avvento delle chat e dei social network, hanno dato vita ad una sorta di tecnologizzazione della parola che ha aperto nuovi scenari nell’ambito della comunicazione mediata. Una delle più efficaci e diffuse forme di comunicazione umana nell’era dei social è rappresentata dalle emoji che, adottate nelle chat online per riprodurre le espressioni facciali connesse a determinati stati d’animo che accompagnano la comunicazione verbale face to face, sembrerebbero migliorare la comprensione delle intenzioni del messaggio arricchendolo di significato.
Si tratta, infatti, di piccole immagini, dotate di una forte carica emotiva, che riproducono la stilizzazione di un volto (il volto, oltrechè identitario, assume anche un alto valore mimetico-espressivo); veri e propri pittogrammi che, raccogliendo in sintesi la simbologia linguistico-emozionale e la tecnologia mediatica, alimentano una nuova forma di comunicazione a distanza. Come avviene nella vita reale quando una certa conversazione viene risolta solo con un’occhiata o con qualche particolare espressione del volto, così nel mondo virtuale le emoji attivano un processo comunicativo che, esaltando l’intensità emotiva, migliora la comprensione del significato del messaggio che si vuol trasmettere, ed enfatizzandone il contenuto, rende la conversazione più divertente. L’intento dell’ideatore era, infatti, quello di riuscire a sintetizzare un’intera frase in un’unica immagine, contribuire ad alleggerire i contenuti degli argomenti discussi in chat, determinarne l’istantanea intuizione, contenerne i tempi ed evitare agli utenti meno esperti il ricorso alla combinazione di caratteri testuali, come avviene invece per le antenate emoticon, che alla fine degli anni ’90 si diffusero come un’evoluzione della punteggiatura poiché venivano scritte utilizzando i comuni segni di interpunzione. Così, per esempio, un occhiolino ammiccante, che si otteneva digitando un punto e virgola, o la solarità di un sorriso per il quale si ricorreva ad una parentesi, davano vita ad una punteggiatura in chiave emozionale.
Dal momento della loro comparsa, avvenuta nel 1982 quando il 34enne informatico statunitense Scott Elliot Fahlman propose di utilizzare questo espediente grafico per enfatizzare le battute divertente vs non divertente con 2 faccine polari in rappresentanza di espressioni di sorriso e di tristezza, le emoticon guadagnarono un immediato enorme successo per il fatto di essere divertenti e a disposizione di tutti. Nel corso del tempo l’impiego di questa simbologia grafo-visiva è stata talmente ontologizzata da linguaggi di codifica, piattaforme e software, da indurre i programmatori a creare pittogrammi disponibili nell’interfaccia grafica delle applicazioni o del sistema operativo stesso. Tant’è che nel 1999 il designer 27enne Shigetaka Kurita elaborò, per conto di una delle aziende leader nel settore telefonia in Giappone, un set di 176 simboli pittografici di 12×12 pixel ciascuno: l’idea era quella di facilitare la comunicazione tra gli utenti consentendo la produzione di contenuti che fossero empaticamente attraenti e rapidamente comprensibili. Nacquero così le emoji (dal giapponese “e” = immagine” e “moji” = personaggio) come evoluzione grafica delle emoticon, e il loro successo surclassò quello delle emoticon.
Aspetti socio culturali del linguaggio simbolico
Oggi le emoji non rappresentano solo espressioni facciali, ma comprendono anche un vastissimo campionario di pittogrammi raffiguranti oggetti, animali e piante, attività, condizioni meteorologiche, cibo e bevande. Parallelamente a questi servizi, vengono utilizzate, sia per esprimere interi concetti o semplicemente come feedback, quando ad esempio si risponde ad un messaggio ricevuto con il ben noto pollice in su (o in giù), sia come emoji iconiche per brandizzare un oggetto, esigenza che scaturisce dall’interesse di certe aziende di mettere in evidenza il prodotto. In questo caso si seleziona una emoji e la si elegge a segno grafico distintivo di tutti gli invii, quasi un’estensione naturale del marchio.
Aumentando di anno in anno e modellandosi sulle evoluzioni sociali, al giorno d’oggi se ne registrano talmente tante che, anche per poterle scegliere, risulta necessario possedere una certa “competenza comunicativa” -per dirla con l’antropologo e linguista Dell Hathaway Hymes- in modo da utilizzarle in modo corretto e pertinente al contesto comunicativo. Perchè anche le emoji dispongono di un glossario e di una vera e propria grammatica; sono disciplinate da regole convenzionali, stabilite socialmente, che definiscono quando e quali siano appropriate per un certo contesto d’utilizzo.
Per il Prof. Samuel Shpall della Oxford University le emoji svelano il lato oscuro del progresso, in quanto rappresentano i sintomi di una società annoiata e pigra. E vivendo in una società siffatta, gli individui cercano soluzioni divertenti, immediate e poco dispendiose, come dispendiosa può apparire una conversazione face to face.
In una società complessa come quella attuale che ha precipitato i nostri giovani -indifesi e vulnerabili davanti alle incognite della vita- in un mondo dominato da vuoto di eticità, disattenzione alle responsabilità civiche e insensibilità verso i problemi sociali, ha preso il sopravvento un’unica indiscutibile certezza: afflitti da sentimenti di impotenza e costretti a navigare a vista in balìa di una realtà segnata da assenza di progettualità, i giovani sono vittime della solitudine dettata dall’isolamento nell’utilizzo dei device digitali. Si sono ripiegati su sé stessi eludendo il valore di una cultura della prossimità, della relazione, della condivisione e, travolti dall’effetto dirompente della tecnologia, hanno tentato di sconfiggere il profondo scoramento che li pervade affidandosi, quasi soporosamente, alle chat, agli sms e alle emoji che hanno contribuito a generare forme di individualismo estremo.
Che fare per scuoterli da questa infermità relazionale, da questa sorta di autismo quotidiano?
Il valore umano del dialogo
Al di là dell’utilizzo responsabile dei media, la scuola, quale terreno privilegiato per dotare i giovani degli strumenti idonei per governare la complessità, deve non solo insegnare a scendere a compromessi con l’incertezza e la precarietà che connotano il nostro tempo, ma anche e soprattutto avviarli alla riscoperta del valore della relazione che si declina nell’incontro, nel confronto e nel dialogo con gli altri.
Occorre recuperare lo sviluppo di sentimenti comunitari ripristinando la relazione umana intersoggettiva, intesa come categoria fondativa dell’esistenza, dove il dialogo inerisce come strumento per entrare in rapporto con gli altri. Perchè il dialogo non incoraggia solo l’incontro di due pensieri, ma di due persone, di due anime che si avvicinano, si guardano, si ascoltano. Il dialogo contribuisce a riconoscere l’umanità dell’altro. Da qui la necessità di favorire il recupero di un linguaggio comune, di una cultura della prossimità e della dialettica come dimensione relazionale e umana, e individuare l’altro come membro della grande famiglia umana.