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DISABILITA’ COME RAPPRESENTAZIONE SOCIALE

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La parole hanno un peso?

Com’è ben noto, con il D.Lgs 62 del maggio 2024 concernente la “Definizione della condizione di disabilita’”, il Governo è intervenuto con l’intenzione di revisionare e riordinare le disposizioni vigenti in materia di disabilità. Non solo. Ha diramato anche una Direttiva in merito all’aggiornamento della terminologia in materia di disabilità da adottare in ogni contesto, dalle informazioni istituzionali ai documenti amministrativi.

Scopo dell’iniziativa è quello di uniformare e promuovere una comunicazione più inclusiva e rispettosa, adeguando anche il linguaggio utilizzato per riferirsi alle persone con disabilità, ad un lessico più appropriato. Locuzioni come “portatore di handicap”, “handicappato”, “disabile” o “diversamente abile” ritenute oramai osolete, sono state sostituite da nuove espressioni, come persona “in condizione di disabilità” e persona “con disabilità. Modifiche rilevanti sono intervenute anche nella descrizione dei livelli di gravità. Formule come “con connotazione di gravità” o “in situazione di gravità” sono sostituite da persona “con necessità di sostegno elevato o molto elevato”, mentre il “disabile grave” diventa una persona “con necessità di sostegno intensivo”(art.4 Dlgs 62).

Il presupposto ideologico su cui si fonda questa iniziativa è che spesso le parole influenzano il nostro agire: il significante ha il potere di condizionarci sul significato che attribuiamo alla realtà che ci circonda e orientare la nostra percezione dell’altro da noi. Con riferimento alla questione disabilità, il Ministro per le Disabilità Alessandra Locatelli ritiene che la scelta delle parole abbia contribuito ad alimentarne lo stigma sociale, generando sentimenti di pietismo e pregiudicando l’intrinseca dignità della persona.

Il diritto di essere persona

Ed è proprio alla persona che si rivolge il Governo con questa innovazione. Sottolineando come già la nostra Costituzione ne riconosca la centralità e come il diritto all’uguaglianza si fondi sul principio della diversità di ogni persona, il Ministro Locatelli sostiene che il riconoscimento della condizione umana implichi già di per sé la nozione di diversità, per cui anche la “condizione di disabilità” altro non è che un particolare modo di essere della persona, da annoverare fra le tipologie della diversità individuale. Merita forse ricordare che l’espressione “persona con disabilità” apparteneva già al linguaggio ufficiale della Convenzione sui Diritti delle Persone con Disabilità approvata dall’ONU nel 2006 e ratificata dal Parlamento italiano nel 2009. Ad essa, infatti, si riconosceva il pregio di aver posto al centro la persona, nella sua unicità: ogni persona ha valore per il fatto stesso di esistere, di essere unica nel suo genere, irripetibile rispetto alle caratteristiche psicofisiche e diversa da qualunque altra. Pertanto, ogni persona merita rispetto per quello che è, perchè ciascuna è parte della grande famiglia umana.

Foto di Adam da Pixabay

Ma non basta affermare che ogni persona ha “diritto alla vita”: condizione essenziale per promuoverne il valore è l’effettivo godimento di tale diritto”, come diritto connaturato alla condizione umana. In altri termini, oltre alla diversità conferita dalla propria unicità e irripetibilità, ogni persona deve essere considerata nella sua interezza, come frutto del suo sviluppo integrale, della sua compiuta realizzazione. Da qui, il riconoscimento anche per le persone con disabilità del diritto di beneficiare di una vita piena e appagante intraprendendo un percorso, non solo commisurato alle loro reali potenzialità personali ma nutrito anche dei propri desideri, preferenze e aspettative, e scandito dalle proprie scelte.

Dal modello assistenziale al modello bio – psico – sociale

Nel corso degli anni la nozione di disabilità ha subito profondi mutamenti a seconda dei contesti e delle prospettive da cui è stata analizzata; comunque, il progresso nella gestione della disabilità è stato finora significativo. Dalle classi differenziali degli anni ’60 in cui la persona disabile era ‘reclusa’ e considerata pressochè invisibile, malata, menomata, bisognosa di assistenza e di cure speciali, si è passati verso la fine degli anni ’70, grazie a battaglie politiche e contestazioni giovanili, ad una concezione sociale della disabilità considerata non più come deficit della persona ma come frutto della relazione che la stessa ha con il proprio ambiente di vita. Negli ultimi anni si è approdati poi ad una nuova fase, quella dell’inclusione sociale. Muovendo da una prospettiva di tipo bio-psico-sociale della disabilità, l’inclusione sociale si compie nel rispetto del diritto di ogni persona all’autodeterminazione, all’indipendenza e all’inter-indipendenza con gli altri membri del tessuto sociale in cui vive. E una società può definirsi inclusiva solo se si fonda sulla piena ed effettiva partecipazione delle persone con disabilità ad ogni aspetto della vita, senza che impedimenti contestuali o comportamentali possano frapporsi come barriere rispetto al proprio ‘funzionamento’.

Vecchi bisogni ed eterni diritti

Eppure, un certo atteggiamento di emarginazione verso le persone con disabilità ha continuato a persistere negli anni, anche nelle comunità che si definiscono avanzate.

Così come continua a perdurare, soprattutto nell’erogazione di servizi, un forte spirito

assistenzialistico che non permette certo di promuovere quel rinnovamento e quella crescita della persona, come potenziale membro attivo di un contesto socio-occupazionale: una politica assistenzialista, che non preveda interventi volti a promuovere l’autonomia e l’autodeterminazione delle persone con disabilità, non è in grado di favorirne l’inclusione. Investire in inclusione, costruendo relazioni per creare occasioni di incontro, di scambio, di dialogo mediante percorsi di pratica sportiva, culturale e ricreativa, rappresenterebbe quel miglioramento qualitativo in grado di trascendere la stretta e asfittica correlazione tra disabilità e menomazione, per promuoverne un’altra, incentrata sullo stretto legame esistente tra dimensione personale e dimensione sociale.

Foto di wal_172619 da Pixabay

Ne discende che, più che sulla disabilità della persone, bisognerebbe focalizzarsi sul loro essere persona nell’ambiente in cui vivono: limitazioni, ostacoli, steccati ambientali e comportamentali, oltre a determinare una violazione della dignità e del valore personali, contribuiscono a minarne l’autostima impedendo alle stesse di esercitare il sacrosanto diritto di vivere in modo indipendente, autonomo e partecipativo. Che, nella maggior parte dei casi, neanche reclamano: vestendosi di umiltà e rassegnazione, restano ai margini del loro mondo senza esporsi a recriminare quel diritto ad una vita normale, frutto di desideri, aspettative e della libertà di scelta che accomuna tutte le persone. Da qui, il concetto di fragilità delle persone disabili: una costruzione sociale propria di persone con limitazioni funzionali che quotidianamente incontrano ostacoli al pieno sviluppo del loro essere persona.

Sarà sufficiente un cambiamento di lessico per far sì che le persone con disabilità abbiano garantita, da parte delle istituzioni e della comunità di appartenenza, la possibilità di vivere pienamente la loro vita realizzando al massimo il loro intrinseco potenziale, senza sentirsi discriminate perchè ‘diverse’?

Il valore sociale del rispetto

Ritengo che il recupero del senso del rispetto per la vita umana non sia una questione di lessico. Il rispetto è strettamente connesso all’ambito dei diritti umani, anche se l’idea diffusa che il rispetto abbia a che fare con la capacità di guadagnarselo, mostra l’evidente paradosso insito nel suo concetto. La verità è che il rispetto della condizione umana non coincide con la stima legata al ruolo o alla posizione sociale della persona: non si è degni di rispetto a seguito di un’azione virtuosa o comunque positiva entro il sistema valutativo collettivamente riconosciuto. Il rispetto non è oggetto di conquista, ma si traduce nell’universale riconoscimento dell’altro dal momento in cui accetta di entrare in relazione con la mia persona.

Esiste nell’essere umano un’originaria vocazione alla convivenza, per cui la persona costruisce la propria esperienza esistenziale nella relazione con l‘altro. Ogni persona ha la sua naturale proiezione verso l’esterno, verso la società, e il suo benessere dipende in larga misura dai fattuali rapporti sociali che stabilisce con l‘altro: più le relazioni sono gratificanti, più si rafforza la sua autostima e la sua capacità di poter vivere attivamente e in maniera autodeterminante.

 In merito alla questione disabilità, la sfida lanciata dal Governo è sicuramente un’impresa ardua, perchè la conditio sine qua non per valorizzare l’aspetto identitario delle persone con disabilità resta pur sempre quello di vivere in comunità improntate al rispetto, al dialogo e a quell’apertura verso l’altro che conducono a reciprocità e  cooperazione sociale. Affinché il riconoscimento del rispetto non si riduca a mero esercizio retorico o non decada in puro nominalismo, è necessario un adeguato ripensamento filosofico del fondamento di tale principio morale.

Foto di Robert Owen-Wahl da Pixabay

Il rispetto è un valore universale”: così si è espresso il Presidente Mattarella in occasione della “Giornata del Rispetto” celebrata per la prima volta il 20 gennaio 2025, quale momento specifico per approfondire il tema del rispetto verso gli altri, contrastare ogni forma di violenza psicologica e fisica e impedire ogni comportamento discriminante e prevaricatore.

Ma nell’epoca della globalità e delle tecnoconoscenze, in un mondo che si pasce dell’esaltazione di valori non più sostenuti da una riflessione critica, come il benessere materiale, l’arrivismo spregiudicato e il protagonismo narcisistico,  arriveremo mai ad apprezzare un’armoniosa convivenza tra le diversità e a riconoscerne l’intrinseco valore?  

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Author: Angela Gadducci

Angela Gadducci è una professoressa con incarico articoli per la sezione etica e società ma anche storia e cultura. Già Dirigente scolastica e Coordinatrice di Attività di Ricerca didattica presso le Università di Pisa e Firenze, è autrice di articoli e libri di politica scolastica. Significative le sue collaborazioni con le riviste Scuola italiana Moderna, Scuola 7, Continuità e Scuola, Rassegna dell’Istruzione, Opinioni Nuove, Il Mondo SMCE.