La violenza di genere
All’ombra di un passato patriarcale
Novembre è il mese in cui si celebra la “Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne”, una ricorrenza che si rinnova ormai da 42 anni, da quando cioè è stata istituita nel lontano 1981 in occasione del primo Incontro internazionale femminista delle donne latino-americane e caraibiche svoltosi in Colombia. Definitivamente sancita dall’ONU nel 1999, la ricorrenza viene celebrata il 25 novembre di ogni anno, il giorno stesso in cui nel 1960, per ordine del dittatore Rafael Leónidas Trujillo Molina che dominava la scena politica della Repubblica Dominicana, furono stuprate, torturate e trucidate tre attiviste politiche, le sorelle Mirabal. Da allora, col nome di battaglia di Las Mariposas (le farfalle), le tre donne divennero simbolo di libertà e di lotta all’oppressione, e il 25 novembre riconosciuto come data-simbolo per celebrare e onorare la figura femminile vittima di subordinazione sociale e violenza.
Una problematica sociale e politica
La violenza contro le donne, così largamente diffusa da diventare tema di dibattito pubblico, si configura come un problema sociale complesso e universale, perchè si presenta in tutte le lingue del mondo e non riguarda solo le fasce sociali svantaggiate, emarginate o deprivate, ma coinvolge le donne di ogni strato sociale e di ogni livello culturale senza distinzione di età, censo, religione o razza: fondandosi sull’appartenenza sessuale e sul desiderio di controllo e di possesso da parte del genere maschile sul femminile, l’oppressione delle donne è un fenomeno sociale trasversale che non conosce confini e comporta sofferenze di natura fisica, psicologica e sessuale, fuori e dentro la famiglia. Quella agìta in ambito domestico rappresenta la forma di violenza più diffusa e forse la più vergognosa violazione dei diritti umani: il contesto familiare nel quale dovrebbe regnare amore, accoglienza e protezione, per le donne vittime della sudditanza maschile si trasforma in un luogo insicuro, una gabbia di martirio. Configurandosi come il fatale esito di un percorso di sopraffazione che prende l’avvio con maltrattamenti fisici e atti persecutori, il femminicidio maturato nell’intimità domestica e familiare, si estrinseca sempre più frequentemente nelle relazioni affettive, quale aberrante e patologica deriva dell’interruzione di un legame. I femminicidi, pertanto, non costituiscono incidenti isolati, frutto di improvvise perdite di controllo o di patologie psichiatriche, ma si profilano come l’ultima tragica tappa di un’ininterrotta successione di atti di prevaricazione e aggressività, segnali di un malessere profondo in seno alle relazioni sociali tra uomo e donna, e spie dell’incapacità, da parte del maschio, di accettare e gestire un lutto affettivo.
Violenza in famiglia
Sono moltissime le donne che hanno alle spalle storie di maltrattamenti reiterati nel corso della propria vita, e altrettante sono coloro che, sulla scia delle iniziative delle associazioni femminili e dei movimenti femministi, squarciano il velo della paura e si ribellano a tali costrizioni. Fino a qualche anno fa i soprusi sulle donne, in particolare quelli che si consumavano tra le mura domestiche, venivano sottostimati e accuratamente taciuti: sommessamente custoditi, assumevano la caratteristica dell’invisibilità dalla quale emergevano solamente quando i fatti di cronaca portati alla luce dai media, evidenziavano casi di omicidio domestico, i cosiddetti femminicidi.
Usato per la prima volta nell’ottobre 2007 in seno alla Risoluzione del Parlamento Europeo che affrontava il tema degli crimini in Messico e America Centrale, il termine femminicidio, entrato ormai a far parte del linguaggio comune e soprattutto mediatico quale alternativa alla parola omicidio che ha una valenza più neutra, è espressione di diseguaglianza, sintomo dell’incompiuto diritto ad una cittadinanza attiva e democratica, ostacolo ad una libera e pacifica convivenza umana.
La donna nell’Islam
Pur essendo animata dal medesimo scopo, ovvero l’annullamento intenzionale della donna in quanto donna, la questione della differenza di genere che percorre l’intera storia dell’uomo, viene letta e affrontata in modo diverso a seconda del contesto geografico, socio-culturale ed istituzionale di riferimento. Ci sono ambienti, per esempio i Paesi a maggioranza musulmana, in cui impera un’ideologia sessista, frutto di una strumentalizzazione dei precetti religiosi operata strategicamente da frange ultraconservatrici del clero per rafforzare, legittimandoli, i sentimenti di superiorità maschile sul genere femminile e per considerare tollerabile, se non addirittura accettabile, la sopraffazione sulle donne. Sopraffazione che, oltre a supplizi fisici, sessuali e psicologici, comporta nei Paesi islamici anche minacce, forme di coercizione e di privazione della libertà personale che si riflettono in tutti i contesti di vita: nell’ambito privato, in quello sociale, nel mercato del lavoro, nella distribuzione della ricchezza, nella sfera della salute e delle opportunità, come pure nel mondo dell’istruzione che, ancora altamente misogina, costringe le donne ad una vera e propria estromissione culturale. Vittime di un sistema tutoriale maschile che le ingabbia dalla nascita fino alla morte, le donne saudite sono destinate al solo ruolo di mogli, madri, nutrici della famiglia che le colloca in posizione subalterna rispetto all’uomo. Anche l’imposizione dell’ḥiǧāb, il tipico accessorio dell’abbigliamento femminile islamico, serve a custodirle nella loro emarginante inferiorità di genere.
L’India
C’è poi l’India, che figura tra le nazioni più penalizzanti in fatto di limitazioni riservate al genere femminile: occupa il quarto posto dopo l’Afghanistan, il Congo e il Pakistan. Nascere donna in India, in cui vige tuttora un apparato societario di tipo patriarcale, equivale ancora oggi ad una condanna a morte: spogliate di ogni diritto e persino della dignità propria di ogni essere umano, nello spazio di tre generazioni più di 50 milioni di donne sono state sistematicamente sterminate per l’unica ragione di essere femmine. Rita Banerji, di nazionalità indiana, attivista di genere e fondatrice della campagna online 50 Mil
lion Missing avviata per denunciare e accrescere la consapevolezza del gendercide femminile in India, parla addirittura di genocidio, la cui arma principale è l’aborto selettivo: milioni di bambine, la cui unica colpa è appartenere al sesso sbagliato, vengono uccise sistematicamente subito dopo la nascita. Per una femmina indiana l’unica via di scampo è rappresentata dalla dote, che consente al maschio/coniuge/padrone di assicurare per sé e per l’intera sua famiglia una rendita a vita.
Il genere tra natura e cultura
Traendo origine da sistemi socio-culturali fortemente segnati da percezioni e rappresentazioni del femminile come subalterno, il concetto di genere si configura come una categoria interpretativa della realtà sociale. La sua introduzione in ambito scientifico risale alla metà degli anni ’70 del secolo scorso, grazie agli studi condotti dall’antropologa americana Gayle Rubin che in un suo scritto del 1975 intitolato The Traffic in Women esamina l’aspetto biologico/sessuale che differenzia uomini e donne trasformandolo in un sistema, il sistema di genere appunto, su cui si fonda l’oppressione e la subordinazione sociale delle donne. Ed è proprio l’aver distinto il dato biologico dal suo significato socio-culturale che ha consentito di superare quell’innatismo che da secoli ha giustificato l’esclusione sociale delle donne svelando logiche di potere e storiche disuguaglianze tra uomini e donne. A differenza del termine sesso, che permette di classificare gli individui in base ai loro naturali caratteri riproduttivi, il genere non è una proprietà naturale dei corpi, non esiste in origine nell’essere umano, ma risulta il prodotto di un complesso sistema socio-culturale e politico che si riflette nei comportamenti e nelle relazioni assumendo un significato sociale. In altri termini, il genere è la traslazione sociale delle differenze sessuali, a significare che il sesso diventa la genesi su cui va ad innestarsi quella costruzione sociale rappresentata dal genere.
La violenza di genere, di matrice sessista e misogina, che si rivolge contro la donna per il solo fatto di essere donna, è ancora oggi un fenomeno tristemente diffuso e in costante crescita, tanto da configurarsi come emergenza sociale. Purtroppo, nonostante le storiche iniziative femministe, i cortei, le proteste di piazza e i minuti di silenzio (il riferimento va all’ultimo femminicidio, quello di Giulia Cecchettin, il 105° nel corso dell’anno), esiste ancora un elevato numero di casi che, o non vengono denunciati a causa della stigmatizzazione e della vergogna che li caratterizzano, o vengono archiviati per mancanza di prove, o non vengono processati a causa del ritiro delle denunce da parte delle stesse donne vittime dell’aggressività maschile.
Eppure, è unanime la convinzione che, tra le violazioni dei diritti umani, la violenza sulle donne rappresenti quella più diffusa, persistente e devastante. Ma, allora, perchè continuare ad occultare o rendere silenziosa questa assordante aberrazione consumata ai danni delle donne?
Scarpette rosse
Negli ultimi anni molte piazze italiane hanno accolto centinaia di scarpe rosse che, da simbolo di femminilità gioiosa, si sono elevate ad emblema della lotta contro ogni tipo di abuso di genere, contro ogni forma di diseguaglianza, squilibrio relazionale, discriminazione, femminicidio. Vennero utilizzate per la prima volta nel 2009 dall’artista messicana Elina Chauvet per denunciare e scuotere le coscienze circa la violenza che le donne subiscono per mano dei maschi: nell’istallazione della piece “Zapatos Rojos”, il lungometraggio d’esordio del regista messicano Carlos Eichelmann Kaiser messo in scena al Consolato messicano di El Paso in Texas, un folto stuolo di scarpe rosse vennero collocate in una piazza a simboleggiare le centinaia di donne sequestrate, stuprate e uccise a Ciudad Juarez durante gli anni ’90. Da allora le scarpe rosse denunciano la brutalità, la vergogna e il terrore delle vittime che le hanno calzate, perchè rosso è il colore del sangue delle donne uccise dal predominio sessista, ma è anche il colore dell’amore possessivo, della passione accecante che, sulla scorta di un’interpretazione patriarcale del maschile e femminile come archetipo della differenza tra i generi e del primato del genere maschile su quello femminile, trasforma una relazione di coppia in un crimine crudele e umanamente intollerabile.